I «nuovi poveri» salgono ai Cappuccini

reportage di Nicolò Zancan

In pellegrinaggio per una mela e un panino al salame

Li vedi arrancare in salita fra ragazzini che fanno footing e pullman di turisti in gita. Hanno borselli a tracolla, buste di plastica in mano, giacche sempre troppo piccole o troppo grandi. Sono vecchi e nuovi poveri, italiani e stranieri, bambini, ragazze, madri, e quasi tutti hanno una storia interrotta e delle speranze da difendere.

Licio faceva il decoratore, Khalid il cameriere in un ristorante che ha chiuso, Valentino ha lavorato per tre anni nel cantiere della metropolitana, Franco era un attore di teatro d’avanguardia in scena con Carmelo Bene. Arrivano anche Bartolomeo, Nina, Sara, Piero e gli altri, più di cento persone al giorno. Ogni pomeriggio, in pellegrinaggio silenzioso, salgono al Monte dei Cappuccini e si mettono in coda per i panini dei frati.

Da quando ha chiuso il punto di assistenza delle suore vincenziane in via Nizza, a Torino sono rimasti soltanto due posti dove mangiare gratis nelle ore serali. Uno è la mensa dell’Asilo Notturno Umberto I di via Ormea – 80 coperti – dove alle 18 inizia la distribuzione dei numeri come alle poste. L’altro è questo spiazzo stupendo che domina Torino, sotto alle luci d’artista che disegnano cerchi viola nel cielo. Dalla piccola porta del convento, quando il sole sta tramontando, si affaccia frate Mario, cappellino in testa e barba candida: distribuisce due panini – oggi frittata e prosciutto – una merendina e una mela a testa. Quanto basta per lottare un’altra notte.

Per la Caritas a Torino sono circa 110 mila le persone che si rivolgono ai centri del volontariato, uomini e donne con fragilità economiche e sociali. Ventimila quelle che nel corso dell’ultimo anno sono sprofondate sotto alla soglia di povertà. Altre sei mila vivono in condizioni di povertà estrema. Frate Mario ha visto tutto questo, semplicemente mettendo il naso fuori dalla porta: «Non c’è più lavoro. Arrivano italiani di 45 anni che potrebbero ancora essere molto utili. Persone ottime. Anche ragazzi giovani e giovani donne, gente normalissima che fino a qualche anno fa non vedevamo. Noi cerchiamo di dare un piccolo sostegno, facciamo i panini». Arrivano ragazzi marocchini che dormono nelle fabbriche abbandonate, una signora anziana che spinge la bicicletta, un uomo con i capelli lunghi che canta una canzone senza parole: «Ti-ti-ti-ti-ti…».

Licio racconta di dormire in una cantina senza riscaldamento: «Per questo ho mal di schiena». E per questo frate Mario ha messo anche un maglione nella sua busta di plastica. «Mi sono accorto subito che la situazione stava degenerando – spiega – ho perso il lavoro e ho litigato con mio fratello. Ma non sono riuscito a mettermi in salvo, nonostante tutti gli sforzi, i tentativi di ricominciare e anche, dicono, una discreta intelligenza».

Lui è uno di quelli che si sta arrendendo, passa le giornate sulle panchine del centro, tiene un giornale nella giacca: «Ma ho 63 anni e non so quanto tempo potrò reggere ancora questa vita». Come Bartolomeo, che quasi scompare dentro a un grosso montgomery blu: «Non mi piace esser considerato un clochard. Allora lascio le mie borse al Cottolengo e le prendo solo quando è buio». Tutto si mischia, alle sei di sera, al Monte dei Cappuccini, paura, rabbia, rimpianto, orgoglio. Fino a tre anni fa Piero faceva il camionista e girava il mondo, gli brillano gli occhi a pensarci: «Sono andato ovunque in Europa, era bello guidare, stavo bene…».

Arriva un bambino romeno di 11 anni accompagnato dalla nonna, prende i panini: «Vivere a Torino mi piace tantissimo – dice – ma visto che a casa ogni tanto non c’è da mangiare, veniamo qui». Un ragazzo di Timisoara è appena arrivato in città dopo un lungo viaggio, sorride: «Spero che dio mi aiuti. Sono pronto a fare qualunque lavoro». Valentino lo guarda con una specie di tenerezza disillusa: «Io ho lavorato per otto anni a Torino. Ma adesso non trovo niente. La vita è dura». Non c’è amicizia. Poca solidarietà. Arrivare al Monte dei Cappuccini per questi motivi rende tutti soli e sospettosi.

E forse è proprio quello che non si può raccontare la parte più importante di questa storia. Sono i silenzi e il pudore di chi non si sarebbe mai aspettato, un giorno, di mangiare i panini dei frati. Salgono più timidi degli altri, più diffidenti, quasi come a marcare una distanza. Prendono la cena e scappano via sussurrando «grazie», prima di perdersi a piedi nelle luci della città.

La Stampa, 21-11-2010

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